Cosa sono i round di investimento di una startup e come funzionano
I round di finanziamento di una startup, meglio noti come round di serie A, B, C, ecc. fanno riferimento ai momenti di raccolta di capitale di rischio durante la fase di growth o crescita di una startup. Il finanziamento di una startup è un processo cruciale per la sua crescita e per il suo successo: sappiamo che il ciclo di vita di una startup si compone di diverse fasi, alle quali corrispondono necessità ed obiettivi diversi — allo stesso modo, anche i finanziamenti di una startup seguono un ciclo ben preciso fatto di fasi in cui entrano in gioco somme e attori differenti. In particolare, dopo le fasi di seed ed early stage, diventa fondamentale l’investimento di capitale da parte di soggetti esterni, strutturato nei diversi round di investimento. In questo articolo abbiamo intervistato Giovanni De Caro, Strategic and Financial Advisor con una vasta esperienza nel settore del private equity e del venture capital, per saperne di più sui round di investimento che coinvolgono una startup nel suo ciclo di vita.

Cosa sono i round di finanziamento per le startup?
Quando si parla di round di finanziamento si è soliti intendere particolari momenti del ciclo di vita di una startup in cui i founder, per sostenere le spese necessarie al mantenimento e alla crescita del business, ricercano risorse economiche da attori esterni all’impresa. In questo articolo, con l’aiuto dell’intervistato Giovanni De Caro, esperto conoscitore del mondo startup e figura di riferimento assoluta per le imprese innovative del sud Italia come in tutto il resto dello stivale, esamineremo le caratteristiche dei diversi round di finanziamento che possono coinvolgere un’impresa innovativa. Prima di farlo, tuttavia, è bene precisare come si è soliti differenziare i round in base a due fattori principali:
- La portata economica dell’investimento, intesa come somma del capitale concesso come investimento;
- La fase del ciclo di vita in cui si trova la start up, ovvero se si trova ancora nella fase di validazione dell’idea di business, o del prodotto, o se sta vivendo il suo momento di crescita e sviluppo per poi mirare a diventare una scale up.
Con l’esperto De Caro ci concentreremo su una divisione in base allo stadio di crescita della startup in quanto, soprattutto nelle fasi intermedie risulta più difficile porre una netta distinzione tra i diversi round. Lo stesso Giovanni De Caro, in riferimento ai round di investimento di serie a, b, c e d, afferma che: “è difficile trovare una definizione esatta di round di serie A in quanto può essere riferito alla dimensione economica del round, e quindi si potrebbe iniziare a parlare di round di serie a da 1 milione in su, oppure allo stadio del ciclo di vita dell’azienda. Se l’azienda è già sul mercato, ha delle metriche strutturate, un modello di business validato e gli servono soldi solo per aumentare la crescita, possiamo cominciare a parlare di serie A. Se invece siamo ancora in una fase sperimentale è difficile parlare di round di investimento di serie A, ma parleremo ancora di finanziamenti della fase seed”.
Vediamo ora quali sono i round di finanziamento che contraddistinguono le fasi del ciclo di vita di una startup e quali sono le caratteristiche principali di ciascuno.
Finanziamenti tramite friends, family e fools (3F)
Come ci ricorda l’esperto del settore di private equity e venture capital Giovanni De Caro: “il primo round di finanziamento, quello che viene definito friends, family e fools (3F), è tipicamente il round che gira intorno all’idea”. Se solitamente per le primissime spese di gestione e mantenimento della start up si è soliti ricorrere al bootstrapping, anche a causa della mancanza di una vera e propria struttura aziendale e all’alto tasso di fallimento che caratterizza questa particolare tipologia di impresa, si arriverà ad un punto in cui saranno necessarie ulteriori risorse economiche per validare l’idea di business e formare il team per startup. Si tratta di parenti, amici e investitori “folli” disposti ad aiutare economicamente la startup in un momento di grande incertezza in quanto credono nell’idea di business alla base del progetto. Lo stesso De Caro afferma che: “quando si tratta di un progetto che abbia potenziale e che sia vicino alla realizzazione di un minimo prototipo, o MVP, si è soliti ricorrere a questa forma di finanziamento per recuperare il denaro necessario”. Generalmente sarà necessaria, in base al prodotto o servizio oggetto del business, una somma tra i 50.000€ e i 200.000€. In alcuni casi potrebbe anche essere sufficiente una cifra tra i 20.000€ e i 30.000€.
Round di finanziamento nella fase di pre-seed
Successivamente troviamo la fase di pre-seed che, come ci ricorda l’esperto Strategic and Financial Advisor è “un round di finanziamento molto vicino al 3F e inquadrato generalmente tra i 200.000€ e 1.000.000€. Si tratta di una somma che viene concessa da investitori cosiddetti seriali, non ancora istituzionali, ma che compiono spesso questo tipo di operazioni”.
Parlando dei finanziamenti in fase pre-seed sarebbe opportuno tracciare una prima differenziazione tra due macro gruppi di investitori che sono: i privati e gli istituzionali. In questo ci corre in aiuto De Caro, il quale ricorda come: “gli investitori istituzionali sono coloro che professionalmente gestiscono somme di denaro che non sono proprie attraverso un fondo di investimento che apporta denaro alle startup. Mentre, gli investitori privati, sono coloro che investono i propri soldi”. Lo stesso prosegue affermando che: “gli investitori istituzionali tendenzialmente apportano una somma di capitale [che] parte dal mezzo milione in sù, molto raramente li troviamo nelle prime fasi di finanziamento. I privati, invece, operano in tutte le fasi di finanziamento e li troviamo tipicamente nella fase di pre-seed dove operano con piccole somme di investimento”.
In conclusione, rispetto al round di finanziamento precedente, nel pre-seed troviamo persone che non conoscevano la startup e lo startupper, a cui i co-fondatori si stanno presentando e raccontando il progetto di business con eventualmente già un minimo di prodotto sviluppato e traction. Si avranno quindi persone che investono con un obiettivo finanziario, non affettivo.
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Round di finanziamenti nella fase seed
Successivamente alla fase pre-seed troviamo la fase seed. In questa parte del ciclo di vita della startup le risorse finanziarie proverranno, non solo da investitori privati ma anche istituzionali. Come afferma Giovanni De Caro: “in questa fase entrano gli investitori istituzioni che in Italia difficilmente apportano investimenti al di sotto dei 500 mila euro. Alcuni di questi sono:
Lo stesso prosegue presentando l’unico caso in Italia di un investitore istituzionale che apporta “ticket” più piccoli: “Scientifica è un investitore istituzionale che fa ticket più piccoli, intorno ai 200.000€. Sono investitori professionali perché gestiscono soldi di terze persone e non hanno un organo vigilato in Italia, ma hanno un organo predisposto ad investire in startup che lavorano intorno al digitale e in ambito tech”. Tuttavia, è bene precisare che finora abbiamo parlato della somma apportata da un singolo investitore, solitamente istituzionale, ma non dimentichiamo che in questa fase di round ci sono anche investitori privati, che con il loro capitale possono contribuire al traguardo complessivo di 1,5/2 milioni.
Round di investimenti serie A, B, C e D
Come già accennato, in questo articolo, con l’esperto Giovanni De Caro, abbiamo posto l’accento sulla distinzione delle fasi di investimento per stadio del ciclo di vita della start up. Il motivo è dovuto alla possibilità di ricevere ingenti somme di finanziamento anche in fasi in cui la startup deve ancora terminare il processo di validazione, ragion per cui il capitale avrà uno scopo diverso da quello di aiutare l’impresa a crescere esponenzialmente. Basti pensare a quanto detto in relazione agli investimenti in fase seed, dove tendenzialmente si hanno investimenti fino a 1 milione, ma non è raro che si vada oltre se il progetto di business lo richiede per terminare il processo di validazione del prodotto e del mercato.
Successivamente si entra nelle fasi di pura crescita, dove l’impresa aprirà ad investimenti con quest’unico scopo. In questo caso parliamo di round di investimento di serie A, B, C e D.
Ma a come è possibile definirli? Abbiamo rivolto la domanda all’esperto conoscitore del mondo startup De Caro, il quale conferma che: “è difficile trovare una definizione esatta di round di serie A perchè può essere riferito alla dimensione del round, e quindi si potrebbe iniziare a parlare di round di serie A da 1 milione in su, oppure allo stadio del ciclo di vita dell’azienda. Se l’azienda è già sul mercato, ha delle metriche strutturate, un modello di business validato e le servono soldi solo per aumentare la crescita possiamo cominciare a parlare di serie A. Se, invece, siamo ancora in una fase sperimentale, è difficile parlare di round di investimenti di serie A”.
Lo stesso prosegue precisando come: “da una certa soglia in poi le lettere che contraddistinguono i successivi round di investimento contano meno. Si parla di round di seria a, b, c perché l’azienda ha fatto un round in precedenza che aveva una certa lettera e di conseguenza il successivo prende il nome seguendo l’ordine alfabetico. Basti pensare che ci sono casi in cui aziende hanno avuto round di finanziamento di serie C da 50 milioni e round di serie A da 100 milioni”.

Panoramica dell’Italia dei fondi di venture capital
Vediamo ora qual è la panoramica Italiana dei fondi di venture capital presenti nel territorio. Per farlo lasciamo ancora una volta la parola all’esperto Strategic and Financial Advisor Giovanni De Caro, che afferma come: “in Italia esiste un ente (CDP) che è il finanziatore di tutti i fondi di venture capital italiani. Finanziatore inteso come anchor investor cioè colui che assicura il commitment sui primi soldi (10/15 milioni). È infatti noto che anche i fondi di investimento hanno problemi di fundraising. Un fondo inferiore ai 50 milioni è tipicamente un fondo che soffre perché non riesce a raccogliere commissioni di gestione sufficiente a pagare un team qualificato, di conseguenza l’execution ne risente. Il primo closing, nella fase imminente, sta intorno ai 30 milioni, e serve per cominciare ad investire per poi continuare la raccolta, anche portando a casa i primi investimenti così da poter dimostrare ai loro investitori che l’operato del fondo di investimenti porta risultati buoni”.
Ma con quale criterio il CDP (cassa depositi e prestiti) eroga fondi? A questa domanda De Caro risponde precisando che: “il processo è fondato sulla capacità di execution del team. Ci sono team già consolidati, rodati e che hanno gestito fondi e, ci sono casi in cui di first team,in cui si danno fondi per la prima volta a chi non ha mai gestito nulla del genere. Si tratta comunque di persone che hanno forti competenze dell’industria e mediamente hanno già fatto operazioni singolarmente come investor privati, oppure sono vecchi imprenditori che hanno fatto exit”.
Nel contesto italiano è interessante notare come la quasi totalità dei fondi di venture capital investa nei round successivi alla fase seed. Secondo De Caro, infatti: “si tende ad investire in società che hanno già compiuto dei seed round, che hanno utilizzato quei soldi per validare il modello di business e generare traction, dove i capitali arrivano per finanziare la crescita. Questa avviene su due linee, quella del consolidamento della base clienti, specie nel B2C, oppure per fare acquisizioni, quindi non più per fare crescita organica ma per vie esterne. Ci sono casi di startup che già generano cassa e che quindi non hanno bisogno di soldi per finanziare crescita organica e in questi casi i soldi arrivano per fare acquisizioni”.
Inoltre, lo stesso Giovanni De Caro prosegue notando un ulteriore trend degli ultimi anni: “è interessante notare come tanti operatori stanno aprendo i loro fondi di investimento in quanto il CDP sta erogando diverse somme con l’obiettivo di sostenerli. Tuttavia, molti riscontrano un problema simile: hanno il commitment dal CDP, il commitment dalla Banca Europea di Investimenti, attraverso il suo braccio operativo che è il Fondo Europeo Investimenti (FEI), ma non hanno il commitment dei privati. Questo non permette ai fondi di venture capital di raggiungere la quota minima per costituire un fondo di investimenti”. Secondo De Caro: “il motivo risiede nel fatto che gli operatori privati che investono nei fondi di venture capital sono in realtà sempre degli istituzionali e tipicamente fondazioni bancarie, casse di previdenza, qualche banca. Questi, pur avendo patrimoni di miliardi di euro, erogano ai fondi di venture capital capitale con il contagocce. Qual è la ragione? Probabilmente perché il VC ha un profilo di rischio dell’investimento che non è coerente con la gestione dei rispettivi patrimoni”.
In conclusione è possibile affermare come in Italia ci siano un paio di attori, CDP e FEI, che erogano risorse economiche in maniera molto attenta ma anche più attivi, distribuendo quindi più capitale a diversi fondi. Tuttavia, risulta comunque difficile per i venture capital raggiungere la quota minima necessaria a causa delle difficoltà nel raccogliere le restante parte dalle altre istituzioni.
Cosa guardano gli investitori nelle diverse fasi di finanziamento?
Un ulteriore quesito che interroga molti aspiranti startupper e fondatori di imprese riguarda gli elementi a cui prestano più attenzione di investitori nelle diverse fasi a cui corrispondono i relativi round di finanziamento. Rispondere non è semplice: lo stesso Giovanni De Caro parte con una prima distinzione in due categorie differenti di business per poi evidenziare gli elementi a cui viene data maggiore attenzione. Secondo l’esperto, “esistono due principali categorie di business: quelli che bruciano cassa e quelli che non bruciano cassa. I business che non bruciano cassa chiedono fondi per fare acquisizione oppure perché devono investire in un nuovo prodotto. Quindi l’attenzione dell’investitore è sulla qualità del target, del pricing, e sullo scenario competitivo all’estero. Per quanto riguarda i business che ancora bruciano cassa, l’attenzione è molto più alta ed è rivolta sulle prospettive del business. Se, ad esempio, vi è un’impresa che ha ricavi più bassi delle spese e pertanto lavora in perdita, in quanto il costo di acquisizione del cliente è troppo alto, l’investitore apporta il denaro richiesto se vi sono ragionevoli prospettive che quella perdita si restringa fino a chiudersi e, contemporaneamente, che con quei soldi si possa contribuire a strutturare una customer base sempre più ampia tale da rappresentare un vantaggio competitivo imbattibile”.
Un altro fattore che si potrebbe prendere sotto esame riguarda la validazione del modello di business. Tuttavia, come precisa De Caro: “la validazione del modello di business è un elemento determinante su aziende che hanno business fondati su modelli forti ma non necessariamente su business basati sulla tecnologia. Basti pensare a startup che lavorano sullo sviluppo di tecnologie ad alto impatto, che non hanno nessun tipo di ricavi o entrate, ma che ricevono milioni di euro di finanziamento per le implicazioni future che potrebbe avere la loro tecnologia”.
Alla richiesta dell’esistenza di ulteriori elementi a cui gli investitori potrebbero prestare particolarmente attenzione quando esaminano un progetto di business su cui investire, Giovanni De Caro sostiene che: “gli altri elementi sono meno rilevanti. Questo perché quando l’investitore guarda un’operazione lo fa prendendo in considerazione elementi tangibili e intangibili. Con elementi tangibili si intendono: la traction, e quindi ricavi, metriche, fatturato. Mentre con elementi intangibili si intende soprattutto il team, che deve essere composto da soggetti con grande capacità di execution, perchè vengono dall’industria o conoscono il business avendo già fatto startup”.
De Caro continua affermando che: “le metriche di prodotto sono importanti: se il prodotto o servizio ha un vantaggio competitivo forte, se il mercato —inteso sia come dimensione del mercato potenziale e sia come pendenza— va in crescita, e poi, soprattutto, la competizione. Nelle prime fasi, quindi nelle operazioni seed dove la traction è molto piccola, la valutazione dell’investitore e della startup riguarda tutti gli elementi intangibili. Se l’azienda cresce, vuol dire che quegli elementi intangibili funzionano, e di conseguenza perdono di peso nelle decisioni future, non perché non siano importanti ma perché è evidente che ci siano e sono ben consolidati. Così facendo l’attenzione dell’investitore è prevalentemente sulla traction. L’unico tema che rimane sempre centrale è quello della concorrenza, anche successivamente alla fase seed, specie se si vuole puntare al mercato estero”.

Come viene organizzato un round di finanziamento?
È noto che il proprietario di una startup passa metà del suo tempo a fare fundraising. Anche una volta ottenuto il primo finanziamento, specie se si tratta di una startup che brucia cassa velocemente, il founder sa bene che quei soldi avranno una durata limitata. Secondo un piano ben preciso si sa che quei soldi verranno bruciati in un certo arco di tempo e di conseguenza deve pensare già ad una seconda raccolta. Sarebbe logico quindi domandarsi come viene organizzato un round di finanziamento in modo da potersi preparare al meglio. Giovanni De Caro, a richiesta, risponde che: “la prima cosa da fare è avere un piano di business. Quando si va dall’investitore si deve dimostrare la validità del progetto, attraverso una presentazione di quelli che sono i suoi punti di forza, e poi esporre il piano per raggiungere gli obiettivi prefissati, nonché il denaro necessario e le modalità con cui questo verrà speso. Quindi, specificare il piano finanziario, la quantità di denaro necessaria e come questi andranno spesi”.
Non è finita qui. Lo stesso continua sostenendo che: “è inoltre necessario che la somma di investimento richiesta sia ben ponderata. Un’eccessiva quantità potrebbe scoraggiare gli investitori, mentre una richiesta troppo bassa potrebbe portare l’azienda a terminare troppo presto il denaro, e ciò potrebbe portare al fallimento dell’impresa innovativa”.
Data l’inesperienza di molti startupper che si avvicinano per la prima volta a questo mondo viene solitamente consigliato di affidarsi ad un advisor. Questo perché, come precisa De Caro: “l’advisor aiuta i founder a costruire il piano di business e a trovare investitori. L’advisor, inoltre, punta sempre a massimizzare la valutazione primaria dell’azienda prima dell’incontro con l’investitore, a velocizzare il processo e a ridurre l’impatto delle clausole negoziali sulla governance dell’azienda e sul ruolo dei founder”.
“Una volta trovati i primi investitori incomincio a trovare un accordo, il cosiddetto soft commitment: un impegno ad investire se ci saranno le condizioni per farlo. Tra le condizioni presenti nell’accordo c’è anche la presenza di altri investitori. Un certo investitore si impegnerà a fare il lead investor, colui che dirige le operazioni, a condizione che si trovino altri investitori. A questo punto ci sarà bisogno di un avvocato.” prosegue De Caro.
Il compito dell’avvocato non termina qui, come l’esperto del mondo startup ci ricorda: “una volta definito il gruppo di investitori si firma una lettera di intenti, il cosidetto term sheet. Si tratta di un documento non impegnativo, salvo la parte dei costi. Questa mancanza di impegno è comunque discutibile in quanto entra in gioco il principio della buona fede, che se dimostrata la sua mancanza, può portare alla richiesta di un risarcimento”.
De Caro continua affermando come: “dopo il term sheet, i fondi di venture capital iniziano a spendere denaro per ingaggiare società di revisione per fare una diligence fiscale, uno studio di avvocati per fare una diligence legale, se c’è proprietà intellettuale chiamano uno studio specializzato. Tutte queste analisi servono a definire il profilo di rischio dell’operazione. Anche se ci sono pendenze col fisco, se ci sono contratti mal stipulati o brevetti che non possono reggere, o con un’analisi del contesto competitivo. Tutto questo ha un costo, anche significativo, specie nei round di serie A, e successivi, il costo è elevato”. Da chi vengono sostenute queste spese? Non esiste una regola oggettiva come ci ricorda Giovanni De Caro: “questi soldi vengono pagati dalla società se il round si chiude, o vengono tendenzialmente pagati dagli investitori se dopo la diligence questi decidono di ritirarsi dall’operazione senza un valido motivo. Quando c’è l’abort, ovvero quando la commissione decide di non proseguire, tipicamente comincia una discussione con l’azienda per chi deve pagare”.
Successivamente, prosegue De Caro, “sulla base dei risultati delle analisi, spesso accade che si rivedano i termini delle condizioni inizialmente previste dal term sheet. Queste possono per esempio riguardare una rivalutazione dell’azienda in seguito a controlli che hanno evidenziato pendenze con il fisco di un certo rilievo. In parallelo gli avvocati iniziano a scrivere i contratti. Questi sono contratti di investimento, un patto parasociale, uno statuto, e incorporano tutta una serie di condizioni e protezioni per gli investitori di minoranza. Nel set contrattuale è definita e regolata la struttura dell’operazione, la governance dell’impresa e gli aspetti di carattere patrimoniale con particolare riferimento all’exit e una serie di clausole che possono condizionare il rendimento dell’operazione e le rappresentazioni di garanzie. Inoltre, vengono definite quali sono le responsabilità dei fondatori se succede qualcosa dopo l’ingresso dell’investitore per fatti che sono operativi ad avvenimenti successi prima dell’investimento”. Infine: “con la firma dei contratti c’è il versamento, che può essere condizionato o no. Se c’è una condizione perché si devono verificare determinati avvenimenti, il versamento è successivo alla firma dei contratti, altrimenti è contestuale”, conclude De Caro.
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